Voci di donne. Racconti di emigrazione polacca in Italia

di Gabriela SamolyK

 

“La persona non è individuo, è il gruppo,
 e ha solo i caratteri ritenuti propri del gruppo”
Tabet Paola, 1997

 

Le considerazioni che seguono si basano su una ricerca sul campo (1) condotta in Calabria tra il 1999 e il 2004. L’utilizzo di diverse tecniche di rilevazione dei dati (interviste in profondità alle donne immigrate dall’Europa orientale e la mia partecipazione alla loro vita di tutti i giorni) ha permesso di analizzare le loro condizioni di lavoro e di vita, che spesso le riducono a essere non-persone, deprivate dell’identità personale. Lo scopo di questo scritto, incentrato qui sul caso polacco, è di offrire un’opportunità di parola a chi, pur vivendo e lavorando in Italia, non vede riconosciuti i suoi diritti di cittadino effettivo della società italiana. L’analisi è costruita come un continuo contrappunto tra la mia voce e quella delle donne con le quali ho parlato. Sappiamo infatti molto dell’immigrazione, e gli studi disponibili ci rendono certo consapevoli dello stato delle cose. Eppure a molti manca, a fianco di questa competenza razionale, una consapevolezza personale, un’esperienza diretta di cosa significhino parole come “discriminazione”, “abuso”, “assenza di diritti”. Scopo di questo testo è fornire esattamente questa dimensione personale e vissuta di alcuni concetti spesso recepiti solo in astratto. Nulla di nuovo, dunque, in queste pagine, ma forse un modo nuovo di assumere coscienza di quel che sappiamo da tempo.

Nelle attuali migrazioni internazionali è evidente la presenza nuova e più significativa delle donne, che oggi costituiscono esattamente il 49,9% della popolazione straniera in Italia (2).
Una molteplicità di fattori determina la mobilità di queste persone, anche se il lavoro, da sempre, costituisce la principale causa dell’emigrazione: “[…] non lavoravo in Polonia, ma lavorava solo mio marito (si sa i soldi non sono mai abbastanza!)” (Lucyna).
Tuttavia le migrazioni sono un fenomeno complesso e non possono essere spiegate in termini esclusivamente economici. La scelta dell’Italia come paese d’approdo non è casuale, ma è dovuta alla preesistente distribuzione delle reti migranti che favoriscono gli arrivi, forniscono il primo alloggio in terra straniera e soprattutto sono una fonte di informazioni e di contatti nella ricerca di un lavoro (3): “Avevo una cugina che lavorava in Italia, allora ho deciso anche io di partire” (Magda); “Sono venuta a Cosenza con mia cugina, perché lei aveva qui le sue amiche” (Agnieszka). Queste reti, inoltre, diventano i punti di supporto morale non solo perché: “[…] quando sono venuta in Italia ero semplicemente spaventata, ero un po’ scioccata in quanto mi trovavo in un altro paese, a contatto con un’altra cultura, con altre abitudini. L’ostacolo peggiore era la lingua, dovevo abituarmi a tutto per poter vivere meglio” (Agnieszka); “Mi manca tutto, la mia famiglia, la mia terra, i miei amici, insomma la mia cultura” (Beata), ma anche perché la “terra promessa” spesso non rispecchia le aspettative iniziali delle migranti (4): “Sicuramente prima di venire qui non mi sarei mai immaginata di fare il ‘facchino’, di sentirmi ‘una piccola schiava’” (Anna), e tutto ciò perché:“[…] quando non si conosce la realtà tutto sembra rose e fiori” (Lucyna).

Purtroppo il mercato del lavoro italiano non offre molto a queste persone e le possibilità si restringono all’ambito domestico e di cura, che risponde esattamente al loro progetto migratorio finalizzato al risparmio di pochi mesi: “[…] mi serve qualcosa di breve durata e poco impegnativo” (Lucyna), e questo spiegherebbe la loro bassa propensione a regolarizzarsi:“Questo non mi interessava più di tanto, perché non avevo intenzione di restare a lungo” (Anna).
L’irregolarità, tuttavia, indebolisce la condizione della lavoratrice straniera, che diventa soggetta allo sfruttamento, a ogni forma di abuso. Proprio perché non si tratta solo di un lavoro informale e a bassa remunerazione (“spesso le badanti sono a disposizione ventiquattro ore su ventiquattro, per uno stipendio che va dai 500 agli 800 euro” (5)), bensì di un’occupazione con le sue caratteristiche atipiche che differiscono dal concetto di lavoro generalmente utilizzato. Si tratta di un lavoro che interessa quasi esclusivamente la sfera privata e viene quindi eseguito senza una precisa sequenza temporale, ma sempre e solo quando le esigenze degli altri lo necessitano. Come dice Magda: “Non lo consideravo un lavoro, ma una forma di schiavitù” .
Così, ascoltando le donne immigrate, capiamo che non si tratta di un’occupazione in senso ordinario, bensì di una forma di possesso della persona, che implica in primo luogo un’appropriazione del suo tempo lavorativo pressoché senza limiti: “Io stavo in piedi dalle 6:30, […], e per le 23:30 andavo a letto” (Beata); “La mia giornata cominciava alle 7:30, […], dovevo stare in piedi anche fino alle 2:00 di notte, finché la signora non riteneva opportuno andare a riposare” (Anna).
E neppure il riposo notturno è garantito: “[…] lei mi chiamava sempre, diciamo tre o quattro volte a notte” (Anna); “Io non avevo nemmeno il tempo per dormire, perché di notte dovevo alzarmi” (Lucyna).
L’organizzazione si basa sui ritmi e le esigenze imposte dal datore di lavoro, che non solo ha assunto la lavoratrice per lo svolgimento di alcune mansioni, ma ha comprato anche il suo tempo libero, la sua flessibilità e la sua disponibilità: “Comunque era molto difficile uscire, perché quando avevo il mio pomeriggio libero, loro avevano sempre qualche scusa” (Magda); “[…] non avevo la mia giornata libera, mi era concessa una passeggiata attorno alla casa” (Anna).
Tutto ciò comporta non solo questa “sensazione di assoluta alienazione del proprio tempo, sul quale si avverte di non avere più alcun controllo” (6), ma anche la difficoltà di instaurare rapporti minimi di socializzazione: “Io qua non ho tanti amici” (Beata).

Altro aspetto dell’appropriazione della persona riguarda la limitazione degli spazi personali. Un lavoro di questo genere non sempre garantisce l’alloggio adeguato: “Loro dicevano che avevo la mia stanza, ma si trattava semplicemente di un piccolo ripostiglio di 2 metri quadrati, tutto buio, che aveva come porta solo una tendina” (Magda). Anche l’accesso al bagno subisce in molti casi restrizioni e spesso esprime una chiara volontà di discriminazione: “Non potevo usare il loro bagno, ma quello di servizio. Nel loro bagno io potevo entrare solo per pulire” (Beata); “[…] non potevo usare il suo bagno, ma quello di servizio, dove non c’era l’acqua calda” (Anna).
Per quanto riguarda il vitto, le donne raccontano di trattamenti pesanti se non addirittura umilianti e discriminatori: “Una volta a tavola mi sentii dire: «Allora il pane e i latticini non ti piacciono? Niente mangiare!»” (Marisa); “In quella casa il frigo era sempre vuoto. Una volta mi sono permessa di prendere una delle brioche, ma la signora mi ha detto che quelle erano per la figlia, e che io non le potevo mangiare” (Beata).

Quindi la lavoratrice non solo deve sopportare la sofferenza causata dal distacco dai familiari, dallo “spaesamento” (perché si trova in un mondo diverso dal “suo” mondo), ma anche un sorta di “resistenza” psicologica dovuta alle dure condizioni del lavoro, che cancellano la sua personalità, la sua vita privata. Tutte queste restrizioni e disposizioni particolari imposte dal datore di lavoro “non hanno solo una funzione di controllo, ma servono anche a mettere in chiaro la diversa posizione sociale della collaboratrice e a sancirne l’inferiorità” (7), e infine risultano pericolose, perché possono infrangere l’integrità di una persona (8): “Ero talmente distrutta (psicologicamente e anche fisicamente) che mi veniva la pelle d’oca, quando sentivo che qualcuno pronunciava il mio nome e cominciavo a tremare” (Anna).

I racconti delle donne, inoltre, ci confermano la natura interattiva di questo lavoro, che non può conoscere vere soste proprio per la sua natura: “la vita, la sua ricreazione non va avanti spontaneamente, ma perché qualcuno continuamente restaura l’ambiente intorno, facendo quell’estenuante lavoro anti-antropico che si traduce in sistemare, pulire, nutrire, ascoltare, comunicare” (9). Ma una fonte ulteriore di frustrazione è il mancato riconoscimento da parte dei datori di questo ruolo sistematicamente anti-antropico e ripetitivo del lavoro domestico-assistenziale: “«Ma dai! A casa mia non c’è poi tanto da fare! Qui non c’è poi tanto lavoro fisico!»” (Lucyna). Eppure una volta completati i compiti assegnati, alla lavoratrice viene chiesto, di solito, di trovarsi qualcos’altro da fare, altrimenti:“[…] un giorno [la signora] mi ha visto seduta e si è messa ad urlare, dicendomi che non ero venuta per stare seduta” (Beata).

Comunque, la convivenza riguarda anche la gestione di spazi ricreativi, come la possibilità di guardare la televisione, ma anche qui tutto è sottoposto al volere del “padrone di casa”, perché è lui che paga e di conseguenza detta le regole: “[…] diverse volte mi è successo che mentre io stavo guardando un film, la signora spegneva la televisione e mi diceva: «Allora, andiamo a letto! Buonanotte! Tanto non c’è niente di interessante stasera»” (Lucyna); “[…] guardavamo la televisione insieme. Ovviamente non potevo scegliere il canale” (Anna).
Si tratta di forme difficoltose di convivenza basate su rapporti “a senso unico”, dove solo una delle parti coinvolte ha diritto di scegliere, giudicare e controllare: “La signora decideva tutto, io mi vestivo, lei mi guardava e decideva se io potevo uscire così, o se dovevo cambiarmi.[…]. Se volevo telefonare a casa la loro nonna ogni venerdì mi accompagnava [alla cabina telefonica], non potevo telefonare a casa mia da sola” (Beata). L’“Altro/a”, invece, deve ubbidire e lavorare perché un immigrato “è il solo lavoratore le cui altre funzioni sono interamente riducibili alla funzione primaria del lavoro” (10). E il denaro spesso copre gli obblighi del padrone di casa: “Ero pagata e dovevo lavorare” (Anna); “[…] non mi trattava da persona ma da domestica. Io ero brava perché lei poteva scaricare tutti i suoi doveri (ovviamente di casa) su di me, giustificandosi con il fatto che venivo pagata” (Lucyna).

Appartenere alla categoria di persone che non sono considerate tali, bensì come “braccia, da usare finché servono, da rispedire indietro quando non servono più” (11) comporta anche ripetute minacce di licenziamento: “«Tu sei venuta qui per lavorare e non per sbadigliare, se non ti piace questo lavoro mi troverò un’altra stupida polacca come te!»” (Magda); “«Ma se non ti piacciono queste condizioni, te ne puoi pure andare!»” (Anna). Questa specie di ricatto da parte del datore di lavoro costituisce esattamente una risposta violenta alla lotta per il riconoscimento dei diritti, che “può essere avvertito come un’infrazione alle norme, ai valori e agli interessi del gruppo dominante” (12), o più specificamente, di chi detiene il potere.

Perciò la pesantezza delle condizioni di lavoro, l’assenza di prospettive, la mancanza dell’autonomia, la ristrettezza delle relazioni e della vita portano spesso all’abbandono spontaneo del proprio progetto migratorio, perché come dice Lucyna: “Non tutti sono capaci di rinunciare a tutto per avere questi ‘quattro soldi’”. E c’è anche chi, pensando al futuro dei propri figli, cerca di sopportare tutto concentrandosi prevalentemente sul guadagno, perché “il lavoro costringe a vivere e non solo permette di vivere” (13).

Ma dato che lo straniero si trova in una situazione ambigua perché “la comunità nella quale arriva lo considera estraneo ed egli considera straniera a se stesso questa stessa comunità” (14), con il passare del tempo, le donne polacche da “spettatrici” diventano gli “arbitri” della realtà che le circonda. Così osservando e ascoltando gli “Altri” (i datori di lavoro e non), le donne con amarezza raccontano della totale disinformazione rispetto all’Europa dell’est che, di fronte al mito dell’occidente “ricco e civilizzatore” appare arretrata sia dal punto di vista tecnologico: “«Ma in Polonia avete i frigoriferi, le macchine, la televisione?» (Lucyna); “«Ma da voi si usano i computer, lo sapete cosa sono?»” (Ibidem.); che da quello intellettuale: “«Tu sai leggere?»” (diario (15)); “«Allora voi avete anche le università? Ma quante persone sono laureate in Polonia?» (Lucyna). E forse per questo le donne vengono spesso derise quando studiano l’italiano: “«Allora quando torni in Polonia puoi fare […] anche l’interprete della lingua italiana! Chissà quanti soldi potresti guadagnare!»” (Lucyna).

Nonostante il fatto che la maggior parte degli immigrati “oltre ad avere livelli di istruzione medi o elevati, proviene da situazioni urbane […] medio-alte relativamente al resto della popolazione: è venendo qui che subiscono il tipico processo di declassamento” (16). Anche dal punto di vista economico l’est viene considerato povero:“«Voi siete poveri, vero? Sicuramente l’Italia ti piace di più, perché almeno qui si vive meglio, vero?»” (Magda); “«Eh…! Ma qui hai trovato l’America!»” (Agnieszka); “«Ci sono anche i ricchi in Polonia?» (diario); “«Tu hai una casa? Stai scherzando!»” (Lucyna).
O ancora: “«La Polonia è un paese grande? Ma dove si trova?»” (Lucyna); “«Avete la cioccolata?» (Eadem.); “«Voi polacchi bevete tanto, anche tu bevi?» (diario).

Dato che “la miseria non appare come prodotta dai rapporti sociali, ma diviene qualcosa di congenito, essenza costitutiva del gruppo o della «razza» e dunque una caratteristica di tutti” (17), una lavoratrice straniera diventa semplicemente “una polacca” senza la propria vita, senza identità; o, meglio, una non-persona, che si può impunemente sfruttare:“[…] pensano che tu hai bisogno e allora la gente si approfitta di te” (Beata).
Anche perché uno straniero, non avendo quella nazionalità, quella “sorta di dono di natura, invocato a sostegno di privilegi, prerogative, status e diritti, postulati come indivisibili con coloro che non hanno ricevuto dalla natura il medesimo dono” (18), non ha nessun diritto: “La parola ‘diritti’ non esiste, specialmente per quanto riguarda lo straniero” (Magda); “Il fatto di avere il permesso di soggiorno, il lavoro legale insomma, non fa cambiare niente. È soltanto un pezzo di carta, perché se ti vogliono umiliare lo faranno, e sicuramente non gli interessa chi sei e cosa fai. Per loro basta sapere che sei straniera” (Agnieszka); “[…] mi hanno sempre sottolineato il fatto che non avevo nessun diritto. Perché? Perché sono una polacca” (Anna).

Inoltre, proprio a partire dall’ignoranza sull’Europa dell’est, si mettono in atto ulteriori tecniche di negazione dell’“Altro”, che utilizzano gli strumenti retorici dell’ironia, della messa in ridicolo e del dubbio: “«Ma tu hai qualche diploma, oppure hai fatto sempre la casalinga?» (Lucyna); “«Allora voi avete anche le università? Ma quante persone sono laureate in Polonia? Ma per studiare ci vogliono soldi, voi come fate?» (Eadem).
Così, anche la cultura degli “Altri/e” (intesa come usanze, tradizioni), dato che è “diversa” e non rientra negli schemi del proprio modo di vedere e pensare, viene percepita come “una deviazione in rapporto alla nostra” (19): “«Voi siete arretrati, in che modo vivete!»” (Lucyna); “«[…] ma qui non si fa così, è ridicolo!»” (Magda).

Si dimentica che l'"alterità” viene definita da sempre secondo codici culturali propri e che tutto dipende dalla posizione dello sguardo, perché se “egli è straniero per tutti; tutti sono stranieri per lui” (20). Così la “nostra” (italiana) conoscenza, per quanto possa essere limitata, incoerente o sbagliata per gli “Altri”, sarà comunque ritenuta giusta per “noi”. Perché lo stereotipo, acquista “un valore tautologico di verità solo per il fatto di essere pensato da tutti” (21)e non serve soltanto per costruire quel: “[…] muro, che non puoi oltrepassare” (Agnieszka), bensì per legittimare la propria superiorità e soprattutto per costruire e confermare l’inferiorità degli “Altri”.

Tuttavia, questi pregiudizi e stereotipi, che vengono prodotti, quotidianamente rielaborati, e infine tramandati nella società italiana, portano al non riconoscimento dell’essere umano come soggetto, con la sua identità, i suoi bisogni e desideri e infine rispettivi diritti: “La signora non mi chiedeva della Polonia, dei miei studi o della mia famiglia”(Lucyna), perché: “[…] qui sei una polacca, una domestica, o meglio, una manodopera a basso costo” (Eadem). Così lo straniero è ridotto a un prototipo, esponente di un’etnia, di una comunità, e non ha nessuna chance di soggettivazione.

E poiché a causa degli stessi pregiudizi e stereotipi avviene che “prima di vedere e di ascoltare una persona […] l’abbiamo già classificata, giudicata, a volte eliminata e resa invisibile” (22), nel discorso quotidiano si percepisce anche l’ostilità e la paura verso l’“Altro” (23): “«Ah…! Questi stranieri, ma che vengono a fare da noi? Portano solo malattie, prendono i nostri posti di lavoro»” (diario).
In ogni caso “il gruppo dominante decide la classificazione e la collocazione sociale di persone e gruppi, e può decidere e decide secondo una «biologia» di comodo. (…) Stabilisce chi è «diverso»” (24) e quindi sono tutti, dalla famiglia alla scuola ai mass media ed infine alle istituzioni, i veri artefici di questa realtà, nella quale non c’è posto per gli “Altri”.

Ma siccome, come dice Agnieszka: “[…] ci sono anche delle persone che ti trattano come una di loro”, possiamo sperare che nel futuro qualcosa cambierà, perché le migrazioni sono soprattutto “un’opportunità di incontro e di dialogo tra i diversi nella consapevolezza che ogni differenza sia soltanto un particolare dell’unico volto dell’uomo” (25) e quindi una fonte di arricchimento culturale e umano per tutti.

 

 

1. Queste pagine riprendono e arricchiscono alcuni aspetti già discussi nel mio lavoro di tesi di laurea in antropologia culturale dal titolo: “Non avevo niente, nemmeno la libertà di pensiero”: Storie di donne dell’Est, Università della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2006-07.

2. Cfr. Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2007, IDOS, Roma 2007.

3. Cfr. Stranieri in Italia. Reti migranti, a cura di F. Decimo, G. Sciortino, Il Mulino, Bologna 2006.

4. Cfr. COTESTA VITTORIO, Lo straniero. Pluralismo culturale e immagini dell’Altro nella società globale, Laterza, Roma-Bari 2002.

5. SCRINZI FRANCESCA, Professioniste della tradizione. Le donne migranti nel mercato del lavoro domestico, in «Polis» 1, vol. XVIII, 2004, p. 110.

6. ONGARO SARA, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della ri-produzione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, pp. 53-54.

7. CONSTABLE NICOLE, Collaboratrici domestiche filippine a Hong Kong: regole e rapporti con la famiglia, in Donne globali. Tate, colf e badanti, a cura di B. Ehrenreich, A. R. Hochschild , Feltrinelli , Milano 2004, p. 143.

8. Cfr. HONNETH AXEL, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993. 

9. ONGARO SARA, op. cit., p. 22.

10. SAYAD ABDELMALEK, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 272.

11. AMBROSINI  MAURIZIO, La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia, Il Mulino, Bologna 2001, p. 175.

12. VAN DIJK TEUN, Il discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, Rubbettino, Soveria Mannelli 1994, p. 38.

13. SAYAD ABDELMALEK, op. cit., p. 193.

14. COTESTA VITTORIO, op. cit., p. 12.

15. Durante tutto il periodo dell’ indagine ho tenuto il “diario di lavoro sul terreno” che ha dato un valore aggiuntivo alla mia tesi. Ha permesso di dimostrare l’esistenza di tanti pregiudizi e stereotipi che circolano indisturbati nella società italiana e prendono di mira i soggetti come me: immigrata/straniera/polacca.

16. GALLISSOT RENÉ, KILANI MONDHER, RIVERA ANNAMARIA, L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Edizioni Dedalo, Bari 2001, p. 210.

17. TABET PAOLA, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. 79.

18. GALLISSOT RENÉ, KILANI MONDHER, RIVERA ANNAMARIA, op. cit., p. 214.

19. TODOROV TZVETAN, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Torino 1991, p. 300.

20. COTESTA VITTORIO, op. cit., p. 53.

21. DAL LAGO ALESSANDRO, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2005, p. 51.

22. SIEBERT RENATE, Il razzismo. Il riconoscimento negato, Carocci, Roma 2003, p. 50.

23. Cfr. TABET PAOLA, op. cit.

24. Ivi, p. XXXII.

25. COTESTA VITTORIO, op. cit., p.130.

 

Pubblicato in «Pl.It.-Rassegna italiana di argomenti polacchi», 1989-2009: La nostra Polonia, vol. 3, n. 1, 2009, pp. 674-681

 

25- 03- 2010